Canto VIII
Sono le prime ore di sabato 9 aprile. Virgilio e Dante stanno nel V cerchio, del quale è guardiano Flegiàs. È la palude Stigia. Vi sono puniti gli iracondi, i tristi, gli accidiosi, immersi in posizioni diverse nelle acque melmose della palude. Il contrappasso si spiega così: gli iracondi furono sfigurati in vita da un vizio turpe; in Inferno vengono deformati nei lineamenti dalla melma; gli accidiosi e i tristi sono vessati dal fango che gorgoglia nelle loro bocche (simbologia della obnubilazione che li oppresse nel mondo). Qui Dante incontra Filippo Argenti, personaggio iracondo, manesco, di cui parla Boccaccio dicendo che era talmente ricco da ferrare i cavalli con l’argento (da cui il soprannome).
Questo canto è di fondamentale importanza, perché è il punto e il luogo in cui Virgilio riceve uno scacco alla sua sicurezza di guida e, per la prima volta, teme di non portare a buon fine l’itinerario voluto dal Cielo.
Inoltre, siamo ormai davanti alla città di Dite (l’Inferno vero e proprio), cerchiata da mura arroventate, con torri alte e strani modi di comunicazione fra i diavoli, i quali hanno visto i due e sospettano qualcosa.
Ma procediamo con ordine.
Mentre Dante porge succinte domande al Maestro, sfreccia verso di loro Flegiàs sulla sua barca, credendo che i due siamo dannati. L’accoglienza da parte dei demoni è sempre violenta, almeno a parole e col volume della voce. Però Virgilio risponde a tono, e Flegiàs lascia salire i pellegrini sul legno, che solo quando vi pose piede l’Alighieri sembrò carco (cioè carico). Ed ecco che la forza poetica si impossessa della descrizione narrativa appena, nella morta gora, si para davanti alla barca uno pieno di fango: l’atmosfera si fa drammatica nel contrasto fra colui che è nel brago e il Pellegrino che rammenta pian piano il dannato così ridotto nella “broda”.
Il dialogo serrato fra i due presenta dittologie sinonimiche in un linguaggio “comico” (riferito allo stile, cioè mezzano), di un’efficacia tremenda: si sente l’astio fra i protagonisti, in quanto le battute sono pervase da ritorsioni, incalzanti nelle riprese. C’è palese un vecchio rancore da parte di entrambi, ma il conflitto si esaspera quando il Pellegrino, polemicamente, dice di averlo riconosciuto nonostante la lordura che lo avvolge (qui si tratta di metasignificato, che attualizza lo scontro non nella memoria, bensì nell’essere e nel luogo); ed ecco il dannato (Boccaccio lo descriverà grande, forte, nerboruto, sdegnoso, iracondo, bizzarro più di ogni altro) afferrare il legno con entrambe le mani onde rovesciare la barca, vinto dall’ira e dalla sete di vendetta. A questo punto accade una cosa di estrema significazione nel contesto di tutta la Commedia, e che solo pochi esegeti hanno messo in luce (di recente anche Giorgio Bàrberi Squarotti in L’artificio dell’eternità). Virgilio, accortosi dell’intenzione malvagia di Filippo Argenti, lo ricaccia indietro, abbracciando Dante, baciandogli il volto e sentenziando: «Alma sdegnosa,/ benedetta colei che ‘n te s’incinse!» (vv. 44-45). È una perifrasi che riporta immediatamente al Vangelo, con riferimento a Cristo e alla Vergine Maria, quando l’anonima donna della folla (Luca, 11: 21) invoca: Beato il ventre che ti ha portato e il petto che ti ha nutrito. È un momento solenne, ingiustificato in questa azione di litigio fra il vivente e il dannato.
Perché Virgililo, tanto misurato e forse severo con il suo allievo, si slancia in una lode ricalcata addirittura sull’apostrofe evangelica? Qualche commentatore parla di un parallelo fra Dante e Cristo, nel senso che l’Alighieri si ritiene il profeta dell’Età dello Spirito vaticinata da Gioachino da Fiore. D’altronde, se non si legge la Commedia in chiave profetica, si è fuori strada.
Tolto l’attimo di altissima benedizione da parte del Maestro, il linguaggio torna triviale, nel senso dell’accostamento della parola alla situazione: annominazioni, allitterazioni, ripetizioni, uso di gutturali etc., fanno di questo intreccio metrico un capolavoro di accorgimenti retorici che pongono in attesa il lettore. E vedremo perché.
Il risentimento da parte di Dante verso Filippo Argenti è incontenibile, poiché chiede a Virgilio la sadica soddisfazione di «vederlo attuffare in questa broda/ prima che noi uscissimo dal lago». E il Maestro: Di tale desiderio è doveroso che tu goda. Così le fangose genti fanno strazio dell’iracondo, e Dante afferma: «Dio ancor ne lodo e ne ringrazio» (v. 60). Teniamo a mente questo comportamento del Sommo Poeta quando esamineremo il suo incontro con i sodomiti e altri spiriti dell’oltretomba. Ma non dimentichiamo neppure la terzina di sentenza morale (vv. 49-51): «Quanti si tegnon or là su gran regi/ che qui staranno come porci in brago,/ di sé lasciando orribili dispregi!». Dante affida a lacerti inattesi, ancorché sospettabili nell’economia della Cantica, sempre ammonimenti, deduzioni didascaliche, sottolineando i desideri perversi degli uomini “nell’aiuola che ci fa tanto feroci”.
Quindi, dopo una larga aggirata, giungono davanti all’ingresso della città di Dite. Lì debbono scendere dalla barca. Ed ecco una nuova scena popolata di demoni, in quel colore ruggine infuocato. I diavoli riconoscono che Dante è vivo; dicono a Virgilio di entrare da solo, ricacciando indietro il Pellegrino venuto anzi tempo. Lo spavento si impossessa del Fiorentino, specie quando la sua Guida lo lascia per andare a parlare direttamente coi guardiani delle mura. E qui il canto sembra fermarsi, pare che trasmetta pure al lettore una stasi, un vuoto, un’attesa nel dubbio atroce di non poter né proseguire né tornare indietro. E le potenze infernali serrano la porta in faccia all’interlocutore! Il momento supremo è rappresentato dal ritorno lento e sgomento dello sconfitto Maestro. «Chi m’ha negate le dolenti case!», esclama Virgilio, perplesso per l’impensabile ostacolo, stupito. Riflette a voce alta: Questa tracotanza la usarono pure con Cristo quando, dopo la morte, scese nel Limbo per trarvi fuori i giusti che l’aspettavano. Tu stesso hai visto quella porta con le scritte che non riuscivi a comprendere... ma sta’ tranqullo, perché il Messo Celeste già discende l’erta, senza protezione in quanto sicuro del suo potere col quale ci spalancherà la porta ora chiusami dalla diffidenza dei diavoli.
In sostanza: senza il diretto intervento di Dio, ogni anima è perduta.