Canto IX

Sabato 9 aprile; è il primo mattino. Le mura della città di Dite racchiudono l’Inferno profondo. Esse rappresentano la linea di demarcazione tra i peccati di intemperanza singola, personale, e quelli ben più gravi di coinvolgimento e portata sociale. Come la seconda parte del canto precedente sembrava fermare il cammino verso la zona più dolorosa degli inferi, così questo è un passo didascalico, pieno di espedienti finalizzati a rassicurare il Pellegrino impaurito e, forse, sfiduciato nei confronti della Guida.
La quale, per altro, conferma a Dante che le cose volgono al peggio. E, tuttavia, similmente ad ogni incertezza umana, che allo scoramento segue – magari per sola forza della disperazione – un conforto campato in aria, così Virgilio alterna – con psicologia sapiente e supremi accorgimenti di rassicurazione – attimi di abbandono a parole di esortazione: «Pur a noi converrà vincer la pugna» (v. 7), dove il termine “converrà” ha sempre il significato imperativo di deve accadere, è necessario, avverrà così; ma subito dopo: «Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga» (v. 9). L’attesa è tremenda al cuore umano, ma è pure una virtù cristiana che rafforza la Fede.
Il Messo Celeste non compare. Dante prova timore per le parole interrotte del Maestro, le quali producevano ansia a chi per la prima volta si trovava in simili frangenti. E Virgilio rafforza la dose per rassicurare l’allievo, dicendo: «Ver è ch’altra fiata qua già fui,/ congiurato da quella Eritòn cruda/ che richiamava l’ombra a’ corpi sui» (vv. 22-24). Il poeta latino lo fa per placare i timori in Dante: finge di essere stato lì già una volta trascinato dalle arti magiche di una nota incantatrice:, quindi conosce il viaggio, e sa quel che fa. Però, se non giunge il Messo dal Cielo... C’è una nuova stasi narrativa, data dal racconto di Virgilio, che il Pellegrino alla fine non riesce a seguire, attratto da altri mostri quasi sospesi sulla torre più alta delle mura.
Sono le Furie infernali Megera, Aletto e Tesifone, le quali, secondo la mitologia, erano figlie di Gea, nate dal sangue di Urano storpiato dal figlio Crono. Sono la personificazione della vendetta, al punto che, per placarle, nel mondo dei vivi
erano implorate come Eumenidi (le benevole). Esse sono la causa di ogni male: con il pensiero, la parola e l’azione.
Guarda, disse il Maestro, «le feroci Erine» (v. 45), «e tacque a tanto» (v. 48). Lo scacco, il senso di fallimento provati nella seconda parte del canto precedente, qui si approfondiscono non già perché si disperi della venuta del Liberatore, ma perché egli tarda, e l’attesa è di per sé cattiva compagna della speranza. La scena è impressionante; infatti le Furie infernali non hanno il compito di strapazzare le anime come fanno i diavoli, ma (così dice l’antico commentatore Benvenuto da Imola) «inducono l’uomo al furore e alla furia di ogni forma di delitto». E c’è di peggio: «Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;/ battiensi a palme e gridavan sì alto,/ che mi strinsi al poeta per sospetto» (vv. 49-51). È significativo ricordare che Dante si stringe spesso alle “fidate spalle” del suo duce (vedi Purgatorio, c. VIII). Ma la paura si fa terrore quando le Erine minacciano la venuta di Medusa, capace di pietrificare chi la guarda. Ed il maestro, in un frangente simile, estremo, può solo ordinare a Dante: «Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;/ ché se ‘l Gorgon si mostra e tu ‘l vedessi,/ nulla sarebbe di tornar mai suso» (vv. 55-57).
Siamo al limite della resistenza dei due pellegrini. Ma proprio nel punto cruciale, giunge il Messo Celeste. Tutto quello scenario terribile si dissolve, a guisa di un gruppo di rane che fuggono alla vista della biscia. Un’invettiva forte e dura esce dalla sua bocca («O cacciati dal ciel, gente dispetta.../ ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?», vv. 91 e 93). La porta si spalanca. Il Messo tornò indietro, senza far motto ai pellegrini, ma dette chiara l’impressione di uno che «altra cura stringa e morda/ che quella di colui che li è davante» (vv. 102-103).
Reso libero l’accesso alla città di Dite, si slarga agli occhi di Dante una grande campagna piena di dolore immenso e terribile. Qui il Poeta azzarda similitudini di preziosa importanza anche geografica: come ad Arles, in Provenza, all’inizio dell’ampio delta del Rodano, in cui vi era una notevole necropoli romana ben conosciuta nel Medioevo; come a Pola, «presso del Carnaro/ ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (vv. 113-114), dove c’era un’altra necropoli romana che rendeva il panorama disuguale e vario; così all’interno delle mura infuocate color ruggine apparivano simili tombe, con la differenza che qui è presente il dolore, simboleggiato anche dalle fiamme che incendiano gli avelli. I coperchi erano “sospesi” al punto che fuori uscivano lamenti inconfondibili di persone tormentate. Alla domanda di Dante sulle genti lì punite, Virgilio risponde trattarsi degli eresiarchi e dei loro seguaci, ma i “monimenti” (duplice significato di ‘monumento’) «son più e men caldi» (v. 131), secondo la gravità del peccato stesso.