Inferno - Canto XV

Inferno - Canto XV

Canto XV

È necessaria una breve premessa. Nella Commedia esistono dei canti gemelli, assolutamente inseparabili (ma talvolta vi sono gruppi di tre, come i canti di Cacciaguida e quelli di Piccarda con l’esplicazione del voto e dei suoi gradi). Quello che esamineremo ora non può essere dissociato dal successivo, anche se bisogna rispettare le cesure date dall’autore. Altri passi gemelli sono, ad es. (non posso qui elencarli tutti) il XXI e XXII del Purgatorio, l’XI e il XII del Paradiso, il VI e il VII della stessa cantica, ancorché la critica e la lettura abituale trascurino il canto della Croce a favore di quello politico riguardante l’Impero.
Perché tali canti non sono scindibili? Perché se il poeta avesse potuto trasgredire sulle regole del numero dei versi, li avrebbe uniti di seguito, in quanto la sostanza è continuativa nel discorso narrativo, o poetico, o politico etc. Così vedremo che l’incontro con Brunetto Latini si comprende meglio nella sua delicata psicologia, attraverso i colloqui con i sodomiti descritti nel XVI canto.
Ma procediamo con ordine.
È ancora il sabato 9 aprile, all’alba. Si sta nel III girone, lungo l’argine del fiume Flegetonte. I pellegrini incontrano una schiera di violenti contro natura, cioè gli omosessuali, che camminano sotto una fitta grandine di fuoco. Il contrappasso si legge così: bruciati dalla passione dei sensi contro l’ordine naturale, vengono ustionati da chicchi ardenti dai quali cercano un illusorio sollievo correndo, come si fa sulla Terra quando la pioggia ci coglie senza ripari.
L’incipit è a endecasillabi sdruccioli (il I e il III), sortendo un effetto musicale straordinario. I poeti camminano su uno dei due margini, che il vapore del fiume protegge dalle piccole schegge di fuoco che cadono sul sabbione. Ora Dante prende a termini di paragone due luoghi: uno nelle Fiandre, l’altro in Italia (il Brenta). I primi, i fiamminghi, temendo la marea, costruiscono opposizioni al mare; i secondi, i padovani, per paura delle piene quando le nevi si sciolgono, alzano gli argini ai lati del fiume. Così “quell’artefice” ha costruito le difese lungo il Flegetonte.
Dopo i 12 versi che sono esplicativi o invocativi (introduttivi) in taluni canti, esplode l’altissima poesia dell’incontro con Brunetto Latini, suo maestro. I due
pellegrini scorgono una schiera d’anime che veniva lungo l’argine, e ciascuna aguzzava la vista per inquadrare meglio le persone non colpite dalla grandine infuocata (Dante crea una similitudine straordinaria, con poche parole: «aguzzavan le ciglia/ come vecchio sartor fa nella cruna», vv. 20-21, dopo l’altra bellissima che dona un’atmosfera notturna d’un cielo stellato nel novilunio: «e ciascuna/ ci riguardava come suol da sera/ guardare uno altro sotto nuova luna» vv. 17-19). L’incisività degli esempi, dei paralleli, delle analogie, dei rimandi meriterebbe una trattazione a parte di tutto il poema. A noi basta segnalare, di tanto in tanto, questa forza espressiva, la figurazione plastica, le ombre che risaltano dai versi come bassorilievi: ma Dante è autore che scrive con tutti i sensi, non solo con gli occhi, bensì con l’olfatto (primaria realtà nell’Inferno) e l’udito.
Uno riconobbe Dante; lo prese per il lembo del vestito gridando: «Qual maraviglia!». Ogni incontro ha la sua peculiarità nella forma e nel modo di iniziare un colloquio. Dante non si ripete mai, e, quando sembra reiterarsi, bisogna adocchia- re le sfumature.
Il “cotto aspetto” del dannato non impedisce al Pellegrino di riconoscerlo. Il verso 28 presenta due versioni. Prima: “E chinando la mano alla sua faccia”; seconda: “E chinando la mia alla sua faccia”.
A noi sembra da scartare la prima, nonostante l’accettazione di molti, ultimo Giorgio Petrocchi. Perché? Dante è discepolo, sta sull’argine, quindi più in alto del maestro. La differenza del ruolo impone il rispetto che l’Alighieri ha sempre mo- strato per i maestri in ogni campo: non può permettersi una confidenza “da carezza”; semmai, abbassa la testa per guardare meglio Latini, e, soprattutto, per stare alla sua altezza. Troveremo anche in Purgatorio, XI, questo espediente: Dante si china per riconoscere i peccatori (superbi) curvati dal peso del masso che “doma” la cervice, ma anche per farsi umile come loro e per condividere, curvato pur senza peso alcuno, la loro sofferenza.
Ciò detto, la risposta del vivente è di stupore. «Siete voi qui, ser Brunetto?», e di sorpresa per la condanna al girone dei sodomiti. Eppure Latini ha avuto grandi meriti in vita. Per inciso: Dante dà del voi al maestro, cosa che farà solo con Farinata, Cacciaguida (ma unicamente all’inizio del discorso), Cavalcante e Beatrice.
Nato a Fiorenza intorno al 1220, nel 1294 lì stesso concluse la vita. Notaio, ambasciatore presso il re di Castiglia Alfonso X, dopo la sconfitta di Montaperti si esiliò volontariamente a Parigi. Tornato in Italia, fu priore nel 1287. È ricordato per l’opera enciclopedica Tresor, scritta in lingua d’oil, e per due poemetti didattici in volgare: Il Tesoretto e il Favolello.
Lo storico Villani, nella sua Cronica scrive: «Fu cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini e fargli scorti in bene parlare, e in saper guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica».
All’esclamazione di Dante, Brunetto lo chiama “figliol mio”, avanzando un timido invito a parlargli un poco, rallentando il cammino. L’allievo è commosso. Risponde che, se il maestro vuole, egli è disposto a sedersi con lui, ma Latini spiega
che la sosta gli costerebbe cent’anni di immobilità senza possibilità alcuna di cercare sollievo dal fuoco correndo.
Ed ecco la prova che il nostro intendimento del verso 28 pare giusto: «Io non osava scender de la strada/ per andar par di lui; ma ‘l capo chino/ tenea com’uom che reverente vada».
Nonostante la sorpresa di vedere il maestro condannato per sodomia (e, d’altronde però, di questo vizio solo Dante parla fra i contemporanei), l’Alighieri esprime con il corpo e con la parola una profonda riverenza. Infatti (saltando alcune terzine in cui si discorre di Firenze e della fortuna avversa che aspetta Dante), la dichiarazione di gratitudine verso Brunetto si mescola all’amore del discente per il maestro: «ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora,/ la cara e buona immagine paterna/ di voi quando nel mondo ad ora ad ora/ m’insegnavate come l’uom s’etterna:/ e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo/ convien che ne la mia lingua si scerna».
Non c’è ombra di sentimenti di vergogna in quest’incontro. C’è, invece, una sorta di confessione che rassicura Latini non solo dell’affetto immutato da parte dell’allievo; non solo la sottolineatura della sostanza morale delle cose apprese da lui, ma l’assicurazione che, fin quando Dante vivrà, l’ammirazione e la riconoscenza del discente verso il docente saranno palesi a tutti!
Vedremo nel canto successivo altre possibili spiegazioni di un’esaltazione così svelata, diretta a un uomo invece condannato al tormento del fuoco a causa della sua omosessualità.
Prima di lasciarsi, il Pellegrino chiede all’ombra di rivelargli i nomi dei suoi compagni più noti e sommi.
Brunetto risponde che di molti è meglio tacere l’identità, anche perché il tempo a disposizione è brevissimo; ma sappi che furono tutti cherci (sincopazione di “chierici”, “ecclesiastici”), e letterati grandi e di grande fama, macchiati tutti d’un medesimo peccato. Prisciano (altissimo grammatico latino del 500 d.C., autore dell’Institutiones grammaticae) fa parte della turba grama, ed il famoso professore di diritto Francesco d’Accorso, nonché Andrea de’ Mozzi, il vescovo di Firenze che papa Bonifacio VIII trasferì a Vicenza, dove morì cessando di soddisfare il vizio per cui è punito quaggiù.
Direi di più, ma sta giungendo un’altra schiera con la quale non posso mischiarmi. Ti raccomando la mia opera, il Tesoro, grazie alla quale vivo ancora nel mondo attraverso il ricordo.
Ciò detto, si allontanò di gran corsa per raggiungere i suoi compagni di pena, e parve uno di coloro che a Verona corrono nella gara del drappo verde: «e parve di costoro/ quelli che vince, non colui che perde».