Inferno - Canto XXIX

Inferno - Canto XXIX

«E già la luna è sotto i nostri piedi;/ lo tempo è poco omai che n’è concesso...» (vv. 10-11). Dante, per bocca di Virgilio, indica il tempo terrestre; quindi, se la Luna è sotto i loro piedi, il Sole è sul loro capo (oltre il coperchio dell’Inferno, s’intende). Ora, poiché quando la Luna sorge e il Sole tramonta significa che è plenilunio, e il satellite e la stella sono in perfetta linea di opposizione, per calcolare l’orario in questo preciso istante in cui il poeta latino parla è necessario tener presente che la luna piena c’è stata due giorni prima, per cui non è mezzodì, ma forse le due pomeridiane, o poco prima, dato che il nostro satellite è retrogrado di cinquanta minuti nel levarsi, rispetto al Sole, giornalmente.
In questo canto i pellegrini visitano due bolge: la nona e la decima, lasciando gli scismatici e incontrando i falsari. Ci troviamo, ancora una volta, di fronte a una grandezza smisurata di espressione, ove il Poeta sembra scendere dal suo altissimo scranno per avvicinarsi al lettore, usando la parlata quotidiana, anche “rozza”, se vogliamo, ma d’una universalità a cui nessuno può essere insensibile, in quanto Dante non lavora con metafore astratte, ma immette esempi della quotidianità comune alla gente, tanto più efficaci per quanto maggiormente plastici, olfattivi, sonori; ripetiamo: l’Alighieri scrive con tutti e cinque i sensi, ma la sua unicità consiste anche nel saper passare da un registro linguistico all’altro (nei tre stili canonici) con una naturalezza che lascia spesso interdetto non tanto il lettore – il quale ne trae godimento immediato – quanto il purista della lingua o il tecnico che lega (come fece Benedetto Fioretti nel ‘600) i generi letterari alla qualità in sé e gli stili alla sostanza della narrazione: Dante aveva superato queste barriere retoriche prima ancora che si ponessero all’attenzione dei letterati.
Il Pellegrino, dunque, si attarda, sgomento, a guardare, piangendo, quegli straziati corpi umani, quando il Maestro, un po’ come farà Catone Uticense sulla spiaggia del Purgatorio, lo riprende severo, dicendogli di non perdere tempo (Dante spesso ammonirà i suoi simili sul valore preziosissimo del tempo, la cui perdita spiace a chi maggiormente “sa”).
L’Alighieri spiega al suo Duca il motivo per cui si era soffermato a guardare ancora nella bolgia degli scismatici: Credo di aver riconosciuto un membro della mia famiglia dentro quella fossa. Il Maestro: Non pensare a lui, anzi, sappi che l’ho visto anch’io alla base del ponticello minacciarti con la mano, e sentivo che lo chiamavano Geri del Bello. Tu eri attento solo al signore di Altaforte (Bertran de Born, signore di Hautefort). E Dante: O Duca mio, lui è pieno di sdegno a causa del fatto che la sua morte violenta non sia stata ancora vendicata dalla nostra famiglia: per questo ha evitato di parlarmi, facendomi, per altro, un favore.
Qui bisogna aprire una parentesi per immetterci nei tempi in cui fu scritta la Commedia (purtroppo, noi la leggiamo con il carico delle interpretazioni dei secoli che ci dividono da essa, ma dovremmo tornare a vederla con gli occhi di Dante e la mentalità del 1300!). Geri e il poeta erano cugini. Allora, il senso della famiglia e della sua unità era forte (oggi non possiamo capirlo più). Secondo la testimonianza di Jacopo e Pietro Alighieri, Geri del Bello aveva seminato discordia nella casata dei Sacchetti, per cui Brodaio lo uccise, accendendo una guerra fra i Sacchetti e gli Alighieri, la quale trovò una certa pace se non la vera concordia solo nel 1342! I primi a muovere il coltello furono i Sacchetti, per cui l’usanza medievale imponeva che uno degli Alighieri vendicasse la morte deconsanguineo. E Dante si sente in parte responsabile di quell’azione sospesa nel “regolamento dei conti”. Com- prende il risentimento di Geri figlio di Bello, cugino di Alighiero padre di Dante. Dopo trent’anni avvenne il “pareggiamento” da parte dei figli di messer Cioni, nipoti del morto quivi incontrato.
Ecco dunque i due pellegrini arrivare sull’ultima chiostra di Malebolge. Gli urli sono talmente forti, da costringere il nostro a tapparsi le orecchie con le mani: grida di dolore superiori a quelle che emetterebbero i malati uniti insieme degli ospedali di “Valdichiana, Maremma e Sardegna” nei mesi da luglio a settembre (per estensione, gran parte dell’Italia), ed il puzzo esalava dalle loro “marcite membra”.
Scendendo sempre a sinistra, Dante vede più chiaro il martirio dei falsari, e afferma: Non credo vi fosse una tristezza maggiore nell’isola di Egina quando un morbo fece morire uomini e animali, fino al più piccolo insetto, di quanta ne notai in quell’ultima bolgia.
I dannati, falsificatori di metalli, si grattano le croste stando seduti o camminando nervosi; i falsari di monete sono idropici e bruciano dalla sete; quelli di parole mandano un fetore insopportabile a causa del febbrone che li tortura.
Il contrappasso è questo: come deformarono alterando le cose, ora vengono deformati loro da malattie della pelle che li rendono ripugnanti e sofferenti al massimo. I falsari di persona (come Gianni Schicchi, che incontreremo nel prossimo canto) corrono invasati da una smania furibonda e ficcano i denti nei punti vitali dei compagni di pena.
«Io vidi due sedere a sé poggiati,/ come a scaldar si poggia tegghia a tegghia/ dal capo al pié di schianze maculati» (vv. 73-75: questi due dannati, coperti di croste infette da capo a piedi, si poggiano schiena a schiena, come due teglie sul fuoco perché si trasmettano il caldo). Il prurito li porta a grattarsi con le unghie fino al sangue, scorticandosi come usassero un coltello atto a staccare le scaglie dei pesci più grossi. Leggiamo un paio di terzine prese a caso, e troveremo la nudità narrativa più assoluta, ove ogni parola è pietra lavica, i verbi condensativi, gli accostamenti lapidari come frecce al centro più perfetto: «O tu che con le dita ti dismaglie,/ cominciò ‘l duca mio a l’un di loro,/ e che fai d’esse talvolta tanaglie,/ dinne s’alcun Latino è tra costoro/ che son quinc’entro, se l’unghia ti basti/ etternalmente a cotesto lavoro» (vv. 85-90: “se l’unghia ti basti” è ottativo e significa: possa l’unghia bastarti in eterno – com’è eterna la pena – a sollevarti, tramite il grattarti, dal prurito fastidioso che ti molesta (“Latino” significa quasi sempre italiano). La risposta del dannato è una contro-domanda, alla quale Virgilio risponde al suo solito, sicché «tremando ciascuno a me si volse/ con altri che l’udiron di rimbalzo» (vv. 98-99). Ed ecco parlare uno, originario d’Arezzo (maestro Griffo- lino, alchimista), amico di un certo Albero (o Alberto), figlio del vescovo di Siena. Un giorno disse allo sprovveduto Albero che egli sarebbe stato capace di volare; così, il credulone chiese al maestro di insegnargli l’arte degli uccelli, ma Griffolino rifiutava mettendo scusa che Albero fosse incapace di far ogni cosa. Al che il figlio del vescovo, odiando l’alchimista per il diniego, riferì al padre l’offesa ricevuta, e questi – come narra il Lana – lo sottopose a inquisizione e lo “abbruciò” come eretico. Ma qui è punito per la pratica dell’alchimia. Dante chiede a Virgilio se esista mai al mondo gente più “vana” (insensata e megalomane) della senese. Un lebbroso (nel Medioevo la scabbia, poiché aveva gli stessi sintomi della lebbra, veniva avvicinata ad essa) risponde, dicendo di “escludere” – in senso rafforzativo nei difetti – alcuni personaggi che egli stesso elenca (e qui non ha luogo una delle violente apostrofi dantesche contro intere città, bensì una maliziosa, sottile ironia, che segna una variante significativa nell’economia del Poema).
Alla fine, colui che critica i senesi fingendo di salvarli (ma sottolineando con camuffata acredine i vizi del gozzovigliare, spendere e spandere etc.), è Capocchio, amico di studi dell’Alighieri (almeno stando all’Anonimo), e “sottilissimo alchimista, e perocché operando in Siena questa alchimia fu arso, si mostra suo odio contro i Senesi” scrive l’Ottimo. L’ultimo verso (139), “io fui di natura buona scimia” lo dimostra ingegnoso e inventivo nell’imitare la creatività della natura stessa.
Il breve discorso di Capocchio è un capolavoro di sprezzante umorismo.