È il venerdì santo, 8 aprile. Circa la mezzanotte. Siamo nel III cerchio, quello dei golosi, di cui è custode Cerbero, mostro vorace e chiassoso. Tanto i golosi quanto i lussuriosi, e poi gli avari e prodighi nonché gli iracondi, appartengono al grande gruppo degli “incontinenti”; ma i primi due hanno ceduto, in vita naturalmente, a uno smodato senso del godimento fisico, mentre i secondi due hanno il sovrappeso di un diletto altrettanto fisico ma unicamente per sé stessi.
I golosi sono puniti attraverso una battente pioggia di acqua, neve e grandine che li colpisce riversi a terra. Inoltre, il demonio Cerbero li «iscoia ed isquatra» (v. 18). C’è un fetore di acquitrinio che disturba l’odorato, così come la pioggia rende insipidi i sapori al palato: è la legge del contrappasso.
Il guardiano dalle tre gole, appena scorse i due, aprì le bocche e mostrò le zanne, ma Virgilio non parlò, bensì «distese le sue spanne,/ prese la terra, e con piene le pugna/ la gittò dentro a le bramose canne» (vv. 25-27).
Il paesaggio è grigio, freddo, untuoso. Dei dannati, solo uno riesce ad alzarsi dalla mota. È il fiorentino Ciacco, che Dante non riconosce a causa dell’aspetto fangoso. È il dannato noto in Firenze per la sua ingordigia (e del quale tratta anche Boccaccio in Decameron, IX-8) a ravvisare l’Alighieri, parlandogli con un’allitterazione («tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto»), bisticcio di parole che il Sommo Poeta ha caro, e lo userà spesso, specie nella parlata aulica di Pier delle Vigne. Per il suo concittadino, Dante prova un sentimento angoscioso; si scusa di non rammentarne la fisionomia, però il motivo c’è, ed è la sofferenza che il dannato sente al punto di farla affiorare nei lineamenti del volto.
Ma Ciacco si apre a un’amara descrizione dei fiorentini: invidiosi oltre ogni limite. Quelli lo soprannominarono Ciacco per il vizio della gola (Boccaccio fa derivare il nome da “ciens”, colui che chiede, riferendosi alla sua voracità; per altri è una deformazione di Jacopo, cioè di Jacques). Come una difesa non richiesta, o forse per smorzare la dolente meraviglia del Pellegrino, Ciacco afferma che non è il solo ad essere punito, lì, per quel peccato. Quindi tace.
Ora è necessario puntualizzare una riflessione di fondo. Il sesto canto dell’Inferno, come tutti gli altri sesti delle prossime cantiche, è d’importanza capitale nell’economia politica del Poema.
Per la prima volta l’autore parla di Firenze. Nel sesto del Purgatorio tratterà dell’Italia e nel sesto del Paradiso dell’Impero. A crescendo. Quindi Ciacco è un’occasione per un discorso di ordine politico legato alla città-stato. Perché mai Dante chiede al concittadino il futuro politico di Firenze?
Le anime penitenti non vedono nel presente, ma hanno chiaro il domani (cfr. i versi 100-103 del X canto di questa stessa cantica). E Ciacco predice i tempi avvenire, prossimi: le fazioni si combatteranno, finché i Neri prevarranno, scacciando i Bianchi e con loro Dante. Prima e tremenda previsione dell’esilio. E di nuovo il silenzio. Ma Dante lo incalza: vuole conoscere la situazione di alcuni personaggi che spesero la loro esistenza in difesa della città. Purtroppo la risposta aggrava la tristezza del poeta, perché Farinata, il Tegghiaio, Mosca, Iacopo Rusticucci, Arrigo («e li altri ch’a ben far puoser li ‘ngegni», v. 81) sono in Inferno: i meriti politici sono stati insufficienti a salvarli dalla dannazione eterna.
Poi, una richiesta del dannato, che sarà simile a tante altre (comprese quelle dei purganti): «Ma quando tu sarai nel dolce mondo,/ priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:/ più non ti dico e più non ti rispondo» (vv. 88-90). La seconda parte del canto tratta del Giudizio Universale. Allora le anime saranno riunite al corpo, per cui il tormento sarà superiore a quello che soffrono ora.
Questa volta i due passano dal III al IV cerchio parlando molto, e trovano Pluto, custode del giro che ospita gli avari e i prodighi.