Ultime ore del venerdì santo, 8 aprile. Siamo al II cerchio, il cui custode è Minosse (figlio di Giove e di Europa, re di Creta, personaggio mitologico famoso grazie alle leggi scritte date al suo popolo), giudice che ascolta le sincere confessioni dei peccatori; dopo di che, avvolge la sua coda intorno al corpo, «quantunque volte vuol che giù sia messa» l’anima dannata.
È il luogo in cui sono puniti i lussuriosi, «che la ragion sommettono al talento». Tornano i lamenti, il dolore. Minosse ringhia orribilmente, ma sospende un attimo il suo alto uffizio appena si accorge che Dante è vivo. La prima cosa di cui lo avverte è di non fidarsi di Virgilio che (secondo il commento di Boccaccio) non è stato capace di salvare nemmeno sé stesso. Ma le parole decise e maestose rivolte per placare l’ira di Caronte vengono ripetute con ottimi risultati anche qui («vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare», vv. 23-24).
Per la legge del contrappasso, i “peccator carnali”, che la ragion sottomettono alla forza dei sensi, sono travolti dal turbine, rappresentazione concreta della passione che li vinse. Ma essi sono posti in alto rispetto al digradare nell’imbuto man mano che le pene si fanno più gravi; di contro, nel Purgatorio, i lussuriosi vengono messi poco prima del Paradiso Terrestre, chiaramente a dimostrare che la lussuria è una colpa meno pesante delle altre esaminate da Dante attraverso continui exempla.
Una schiera di anime, portate dalla «bufera infernal che mai non resta», incuriosisce il Pellegrino, che, naturalmente, si rivolge al Maestro per sapere qualcosa. Tutto rappresenta una sorpresa senza limite per lui. Questa volta il poeta latino risponde subito, nominando alcuni lussuriosi morti in maniera violenta. I paralleli fra le anime sbattute dal vento e gli uccelli migratori nel freddo cupo del cielo danno un tono di mestizia alla narrazione. Le ombre castigate dall’aura nera sono soprattutto donne. Infatti questo è il canto in cui la presenza femminile è massiccia, quasi a significare che l’amore, la passione, il dolce tormento dell’ardente inclinazione ad amare, sia preponderante (e tipico) nella donna. La prima nominata è Semiramide, la quale fu così portata alla lussuria, da rendere lecito il vizio con una legge, per assolvere sé stessa e tutti gli altri come lei. Poi viene Didone, la quale si suicidò, dopo aver rotto il giuramento fatto a Sicheo. Quindi Cleopatra, definita “lussuriosa”, in rima, però in antitesi logica, con la Didone “amorosa”. Fra questi protagonisti di un passato che sfocia nella mitologia, non potevano mancare Elena di Troia e Paride, Achille, fino a Tristano, popolare “attore” dei romanzi del Ciclo bretone di re Artù. Ma poi Dante sintetizza così il resto della lunga schiera: «...più di mille/ ombre mostrommi e nominommi a dito,/ ch’amor di nostra vita dipartille» (vv. 67-69).
Ed ecco che il nostro Poeta dichiara la sua pietà verso quei peccatori antichi e meno antichi, tanto da sentirsi smarrito. Nella tecnica narrativa è un espediente letterario per giustificare la richiesta di un colloquio con Francesca da Rimini: appaiono nel grigio spazio di quel breve cielo infernale (sembra una sineciosi, ma la realtà è questa) due ombre: un uomo e una donna, che vanno insieme, e paiono tanto leggeri all’ala del vento. Si tenga a mente che un accorgimento simile Dante lo inventa nel XXVI canto, per Ulisse e Diomede, i quali attirano l’attenzione del Fiorentino proprio perché sono gli unici fuochi a stare insieme in una medesima pira.
Virgilio non nega al suo allievo il piacere (e il dolore) di parlare coi due amanti, ma lo consiglia di attendere il momento propizio (per i Greci, nel fiume nero in cui sono puniti i consiglieri di frode, dirà lo stesso: «Quando parve al mio duca tempo e loco»). E il parallelo con i colombi, quindi sempre con esseri che volano, e che rappresentano la dolcezza, la bellezza, la fragilità, l’imprevisto delle ali affidate “all’aere”, sembra riprendere quello delle lamentazioni delle gru, quasi una didascalia del destino dei lussuriosi, sopraffatti da un’insana passione, ma della quale Dante uomo ha com- prensione, perché “spiritus promptus, sed caro infirma est”. Da qui il pathos altamente lirico nel resto del canto, scaturito dal racconto di Francesca da Polenta, abbracciata per fatale decisione dell’Amore al suo Paolo Malatesta, il cognato bello e avvincente, tanto diverso dal marito Gianciotto (nome che significa: Gianni lo zoppo). Tutti i versi, intrisi di dolce e triste rimembranza d’un tempo fermo nel sogno, per statuto delle umane passioni sottolineano l’impossibilità di sfuggire all’attrazione misteriosa, perché l’amore, che subito divampa nei cuori gentili, non permette, a chi è amato, di non ricambiare: ma lo stesso amore li condusse alla morte.
L’anafora triplice che apre ben tre terzine (vv. 100-108), è di stampo stilnovistico, guinizelliano, cavalcanteo, e dantesco (Vita Nuova). Il Sommo Poeta vibra con le parole di Francesca. Paolo è muto, ma piange. La protagonista assoluta è lei, la donna. Dante si assimila a Malatesta, e forse proprio le lacrime di costui decidono, più che le parole di lei, il venir meno dell’uomo che, ancora nella carne mortale, fragile e mendace, ma spinta da passioni irrefrenabili, non regge alla pena inflitta da Dio ai lussuriosi, e alla pietà che scaturisce dall’osmosi degli inseparabili aspetti della passione: amore e morte.
Se, nel terzo canto, erano stati l’improvvisa immersione nel dolore dei dannati e il terremoto spaventoso a provocare lo svenimento del Pellegrino, qui è la partecipazione di Dante alla dolorosa vicenda dei due infelici amanti a rendere il Poeta simile a un corpo che, morto, cade. Un protagonista è anche l’Alighieri, dietro le quinte, perché in lui coesistono il dramma interiore e l’irresolutezza dell’uomo che vuole, con la sola ragione (la quale viene sommessa dal “talento”, cioè dall’impulso della passione), tendere al trionfo dello spirito.