Sabato 9 aprile; è passata da poco la mezzanotte.
Gli avari e i prodighi stanno nel IV cerchio, definito “lacca” (col significato di cavità, ben raro nell’uso dell’italiano pur antico); spingono col petto enormi massi; divisi in due schiere, quella degli avari e quella dei prodighi, appunto, percorrono ognuna un emiciclo; nell’incontrarsi, partono ingiurie e biasimi sul peccato commesso. I macigni, nel contrappasso, rappresentano le dovizie accumulate o sperperate su nel mondo.
Pluto, dio della ricchezza, forse in questo contesto è scambiato da Dante per Plutone, dio dell’Ade. Ha una voce disumana, arrochita; al pari degli altri guardiani, tenta di impaurire i due minacciando di chiamare addirittura lo stesso Satana. Virgilio gli rammenta la sconfitta di quello di fronte a Dio, per cui, anche questa volta dovrà piegarsi alla volontà dell’Onnipotente.
Pluto non ha argomenti da contrapporre. La sua ira crolla, come le vele dell’albero maestro quando cadono insieme ad esso. Il verso 15 («tal cadde a terra la fera crude- le») è uno dei primi e più potenti metri onomatopeici, grazie agli accenti forti in un endecasillabo “a minore” (tonici su 1-4-7-10), il cui primo emistichio è un quinario dal battito della chiusa tetrastica della strofe saffica. Accenno di volata alla straordinaria inventiva metrica di Dante, sperimentatore azzardatissimo nel gioco degli incastri accentuativi e nelle dislocazioni fonetiche fra gli endecasillabi “a maiore” e “a minore”: e sempre rispondenti alla musicalità interna!
Dunque, come accade a Scilla e Cariddi, in cui le onde cozzano tra loro, così i peccatori si scontrano insultandosi vicendevolmente: Perché ammucchi i beni?, E tu per- ché li disperdi?, e via, sempre, voltandosi per un nuovo urto all’altra metà del cerchio. E Dante, al solito, chiede al Maestro le spiegazioni che la eccitata curiosità gli stimola; ma questa volta, avendo notato alla sua sinistra gente con la tonsura, domanda: Furo- no tutti ecclesiastici?. Le parole sono sincopate (“cherci” al posto di chierici e “chercuti” in luogo di chiericuti), ed è evidente l’ironia puntata all’avarizia, che si muta in sarcasmo amaro se si tratta di preti il cui voto è la povertà. Non per nulla, nell’XI canto del Paradiso, il Poeta, facendo tessere le lodi a san Francesco da san Tommaso, punta soprattutto sulla virtù della “paupertas”, tema dibattuto a quei tempi, causa di polemiche e di esagerazioni estreme, come quella di Ubertino da Casale che restringeva ancor più la regola francescana, mentre Matteo d’Acquasparta la elasticizzava verso una contenuta ricchezza del clero. E Virgilio risponde: Tutti furono così moralmente ciechi nella vita terrena, da non avere il senso della misura sia nello sperpero sia nella taccagneria. Poi aggiunge: Quelli che non hanno capelli in testa furono ecclesiastici, anche cardinali e papi, su cui l’avarizia esercitò a dismisura il suo imperio.
E, similmente al canto terzo in cui gli ignavi non vengono indicati a nome, anche qui, quando il Pellegrino chiede alla Guida di poter riconoscere qualcuno, Virgilio risponde «Vano pensiero aduni:/ la sconoscente vita che i fé sozzi,/ ad ogne conoscenza or li fa bruni» (vv. 52-54). Una sorta di damnatio memoriae li accomuna ai peccatori del Vestibolo. Bisogna considerare che l’oblio del nome era, nel concetto di Dante che scriveva «per coloro/ che questo tempo chiameranno antico» (Paradiso, XVII, vv. 119-120), il massimo del disprezzo.
La seconda parte del canto è una vasta digressione – sempre per bocca di Virgilio – sulla fortuna, per la quale gli uomini si muovono persino guerra, dal momento che tutto l’oro esistente sotto la Luna non sarebbe in grado di dar tregua a una sola di queste anime sfinite dalla brama di possesso. E Dante: Maestro mio, spiegami in cosa consiste, che è, dunque, questa fortuna di cui mi parli e che stringe fra gli artigli i beni del mondo.
L’antico Vate demolisce la credulità umana fondata proprio sul detto latino “Faber est suae quisque fortunae”. Dice: «Oh creature sciocche,/ quanta ignoranza è quella che vi offende!» Dio ha disposto per ogni cosa una guida e un’amministratrice che faccia passare, al momento giusto, l’opulenza da un popolo all’altro, da una generazione a un’altra, da una stirpe a una contraria. L’uomo non può nulla sulle decisioni di costei: esse si celano come il serpente nell’erba.
Il vostro sapere non ha possibilità alcuna di contrastarla; infatti, «questa provede, giudica e persegue/ suo regno come il loro li altri dèi» (vv. 86-87). Il suo mutare non ha tregua. Insomma, l’umanità impreca contro di lei anche quando dovrebbe esserle grata, ma la fortuna vive felice e sorda ai vostri lamenti.
C’è una nota nuova: lo stesso Virgilio, concludendo il suo discorso sul tema importantissimo (e tenuto in scarso conto da molti commentatori!) riguardante l’impotenza degli uomini di fronte a questa dea, cambia argomento e dice a chiare note che ormai stanno discendendo verso un maggior dolore (indicando anche il tempo celeste: «già ogne stella cade che saliva/ quand’io mi mossi...», vv. 98-99). I due attraversano il IV cerchio, giungendo a una fonte che alimenta la palude Stigia.
In questi versi l’Autore dà prova di capacità inaudite nel gareggiare con rime difficilissime (cosa frequente in Dante). La conoscenza del luogo inusitato in cui i pellegrini si imbattono, le disumane punizioni, i colori pesanti, il nero delle acque, il lezzo, le urla, il tristo durare, in eterno, dell’ira terrena che ha rovinato la vita ai dannati, sono descritti con un realismo crudo, finanche violento, in cui le parole sono pietre laviche: caratteristica che si approfondirà oltre le Malebolge fino all’imbuto estremo della Caina.