Inferno - Canto XXVII

Inferno - Canto XXVII

Non c’è soluzione di continuità fra i due canti, per cui l’ora è quasi la stessa e, naturalmente, coincidono il giorno e il luogo.
Due sono i punti centrali del passo presente: il problema del dialetto lombardo messo in bocca a Virgilio (grazie al quale si ferma a parlare Guido da Montefeltro) e Bonifacio VIII.
La fiammella solitaria emette una specie di muggito, simile a quello del bue di rame coniato dal fabbro Perillo per donarlo al crudele tiranno di Agrigento, Falaride: messo dentro alla pancia un condannato, e sistemata la pira sotto il bue, le urla del malcapitato sembravano muggiti, ma strazianti e comici allo stesso tempo. L’invenzione fu fatta sperimentare per primo proprio all’inventore: «una fine giusta – scrive Ovidio – in quanto, chi è artefice di morte, deve perire per la sua stessa arte».
Ora, Guido da Montefeltro (similmente a Farinata che aveva riconosciuto Dante dalla parlata fiorentina), sente il dialetto lombardo di Virgilio. La zona (Lombardia) a quei tempi era assai lata rispetto all’odierna regione. Il dannato muore dalla voglia di sapere notizie del dolce mondo (tutte le anime ricordano con nostalgia “l’aiuola che ci fa tanto feroci”, ed è comprensibile: per quanto si stia male qui, l’Inferno è peggiore: verità lapalissiana).
Ma perché mai il dotto Virgilio, che non ha permesso a Dante di parlare agli altezzosi greci, usa poi il gergo del suo paese (Mantova)? Leggiamo la domanda del nuovo consigliere di frode: «Udimmo dire: O tu a cui io drizzo/ la voce e che parlavi mo lombardo,/ dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”...» (vv. 19-21). Tradotto, è: “Adesso ten va, più non ti incito”; era rivolto a Ulisse. Possibile che, dopo una tanto alta e drammatica tessitura linguistica (mi riferisco al brano dell’avventura di Odisseo), il poeta latino si sia espresso così verso un altro grande, liquidando- lo con un poco riguardoso e piuttosto irriconoscente sintagma? I commentatori tentano sempre di giustificare Dante, di salvarlo in qualche modo, ma qui è palese l’espediente narrativo per immettere sulla scena un italiano e per dare all’Alighieri occasione di sfogarsi anche lui sulla penosa questione della Romagna, e, infine, per tirare in ballo ancora una volta il Papa che non fu estraneo – anche se indiretta- mente – alle sciagure dantesche. “Omnia poetae licent”: e vada per questa giustificazione generale!
Guido da Montefeltro, nato nel 1220, ghibellino, valoroso condottiero del suo secolo, fu capitano del popolo a Forlì, e promotore della politica avversa al Papa nelle Romagne. Venne scomunicato, ma le sue gesta di guerriero e di astuto politico lo portarono a notevoli onori (fino ad essere signore di Urbino). Però la sua esistenza, in vecchiaia, a 76 anni, ebbe una svolta insospettabile: «Quando mi vidi giunto in quella parte/ di mia etate ove ciascun dovrebbe/ calar le vele e raccoglier le sarte,/ ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,/ e pentuto e confesso mi rendei;/ ahi miser lasso! E giovato sarebbe» (vv. 79-84: quando arrivai a quell’età in cui ognuno dovrebbe tirare i remi in barca, mi accorsi che quanto prima mi piaceva, ora mi rincresceva, sicché, dopo essermi pentito e confessato, presi il saio. Ahimé, ne avrei tratto giovamento, se non fossi caduto nei tranelli del principe dei nuovi fari- sei: Bonifacio VIII). Il Pontefice, che Guido mette in luce come nemico non dei “Saracin” o dei “Giudei”, ma dei cristiani oppositori suoi personali, lo chiamò onde avere consiglio per espugnare Palestrina (feudo dei Colonna). Infatti, nel 1298 la città si arrese e Bonifacio la fece distruggere salvando unicamente la cattedrale.
Quando il cattivo consigliere, ora frate, ma celebre uomo d’armi un tempo, ristette davanti alla risposta, temendo il castigo eterno, il Papa lo rassicurò dicendo: «Finor t’assolvo, e tu m’insegna a fare/ sì come Penestrino in terra getti./ Lo ciel poss’io serrare e diserrare,/ come tu sai; però son due le chiavi/ che ‘l mio antecessor non ebbe care» (vv. 100-105). Con “antecessor” s’intende Celestino V: da qui l’ipotesi (sempre discussa e combattuta) che il papa dimissionario sia l’ombra senza nome fra gli ignavi del III canto.
Alla morte del Montefeltro appaiono san Francesco in sua difesa e il diavolo in sua accusa. «Assolver non si può chi non si pente,/ né pentere e volere insieme puossi/ per la contradizion che nol consente», asserisce il demonio, ironizzando: «Forse/ tu non pensavi ch’io loico fossi!» (vv. 122-123). La contesa per un’anima, fra diavoli e santi (o angeli, come si vedrà in Purgatorio nel racconto di Buonconte da Montefeltro, figlio di Guido), non è di conio dantesco, ma è nella tipologia della poesia religiosa italiana dei primordi e delle sacre rappresentazioni.
Minosse, a cui il vincitore infernale condusse l’anima di Montefeltro, lo mandò senza il minimo dubbio fra i consiglieri di frode. I due pellegrini, però, debbono affrontare un altro «scoglio infino in su l’altr’arco/ che cuopre ‘l fosso in che si paga il fio/ a quei che scommettendo acquistan carco» (vv. 134-136, ove “scommettendo” significa dividendo, separando; infatti, la prossima bolgia contiene i seminatori di scandali e gli scismatici).