Inferno - Canto XXXI

Inferno - Canto XXXI

Sabato 9 aprile, dopo le tre del pomeriggio. Il pozzo dei Giganti divide la decima bolgia dal nono cerchio. Dante dice: «Quiv’era men che notte e men che giorno» (v. 10), cioè una sorta di crepuscolo fitto che ostacolava la veduta, ma un suono fortissimo di corno rintrona improvviso. Non staremo qui a descrivere le simbologie di tale strumento, ma diciamo subito che è di Nembrot, il gigante cui va la responsabilità di aver innalzato la torre di Babele, confuso le lingue (ed egli stesso ne usa una incomprensibile agli altri, così come le altrui sono indecifrabili per lui). I giganti sembrano torri a Dante, eppure essi stanno immersi a metà nella terra «da l’umbilico in giuso tutti quanti» (v. 33: Farinata anche si mostra dalla cintola in su, ma Dante usa due modalità opposte per segnare i personaggi), per cui la parte del corpo emersa si aggira, con la testa, sui dieci metri, mentre l’intera statura, comprese le gambe non visibili, è di circa 25 metri.
Il poeta benedice la Provvidenza per avere cessato di creare tali mostri, i quali gareggiarono con gli dèi: chi per voler scalare il cielo (Fialte, forse il più feroce e grande di tutti, che è legato con catene alle mani), chi perché fornito di cento braccia e cinquanta teste con bocche spiranti fuoco (Briareo, ma Dante aggiusta la tradizione antica e lo fa come gli altri, però più feroce nel volto), e Tizio, e Tifo, fino ad Anteo, immenso, l’unico non incatenato, il quale si presta, dopo una lunga e magistrale captatio benevolentiae da parte di Virgilio, a deporre i due pellegrini sul ghiaccio di Cocito. Il gigante si china, per poi rialzarsi come l’albero della nave (ma vale la pena leggere dal testo, per la bellezza del gioco di endecasillabi tronchi che donano alla chiusa un’atmosfera a sé: «Ma lievemente al fondo che divora/ Lucifero con Giuda, ci posò;/ né, sì chinato, lì fece dimora,/ e come albero in nave si levò» (vv. 142-145).
Il canto usa alcuni francesismi (“dotta”, che significa paura, dal verbo dottare, spesso adoperato nella poesia duecentesca), fra cui di particolare risalto è “alle”, dal francese halle, per cui l’Anonimo scrive: “È una misura in Fiandra, come noi diciamo qui ‘canna’, ch’è intorno di braccia due e mezzo”. L’insistenza del Poeta nella precisione delle misurazioni fa parte della tecnica narrativa di Dante, il quale – ed è qui la sorta di miracolo irripetibile – si eleva a poesia nel senso etimologico del termine nonostante l’adozione di esatti particolari, nomi propri, e dati numerici, posizioni di località, riferimenti storici, mitologici e teologici scientificamente comprovabili (d’altronde, vedremo fra poco, nell’incontro col Conte Ugolino, una dimostrazione suprema di “cronaca” assurta ad altissimo canto epico e lirico a un tempo).
Questo è un brano narrativo di passaggio, ma contiene indicazioni morali e didattiche. Primo: i giganti, purtroppo, sono forniti non solo di smisurata forza fisica, ma sono intelligenti, per cui le due qualità creano qualche pericolo data la possibilità di sopraffazione, l’astuzia e la brama di dominio che quasi sfida gli dèi per pareggiarli («ché dove l’argomento de la mente/ s’aggiunge al mal volere e a la possa,/ nessun riparo vi può far la gente»; vv. 55-57); secondo: la forza che diviene violenza e – come scrive Giorgio Bàrberi Squarotti – “dismisura”, alla fine ricade perniciosamente sull’irato, il quale, almeno qui in Inferno, è reso inoffensivo, immobile, privato delle sue capacità che l’hanno reso tracotante e superbo. La forza diviene vana se non indirizzata al bene: tale a noi sembra il messaggio interno, il punto etico di questo canto altrettanto bello e funzionale degli altri, ma particolare e quasi a sé stante.