Inferno - Canto XXXII

Inferno - Canto XXXII

Da qui cominciano tre canti che sono un blocco quasi staccato dal resto di tutta la narrazione della cantica. Infatti l’autore invoca le Muse affinché lo assistano nella descrizione di un così incredibile luogo, e gli forniscano le parole adatte a scolpire quei peccatori che lui disprezza senza limiti. Servono rime “aspre e rauche”, adeguate al gelo che dominò gli animi di tali malfattori. Bisogna citare due versi (10 e 12), per sigillare definitivamente la caratteristica della poetica dantesca: «Ma quelle donne aiutino il mio verso/.../ sì che dal fatto il dir non sia diverso». Dante è concreto, realista, e tali (auspica) debbono essere i mezzi con cui si esprime (le parole). Tuttavia una sorta di non celato sdegno già si intriga nell’incipit, e per tutto il restante racconto non troviamo cedimento compassionevole da parte del Poeta verso i traditori: anzi, il martirio di quelle anime genera in lui un gelido distacco. Il tradimento, per l’Alighieri, è il peccato stesso per eccellenza, l’incarnazione del delitto supremo. L’odio caratterizza le zone del Cocito. Né appare ombra di pentimento in loro, un seppur minimo rimorso di coscienza, un riconoscimento anche larvato della loro cattiveria. La comicità delle Malebolge, con la parodia talvolta dell’esistenza, il gusto del battibecco plebeo ma sottilmente sferzante su piani di imprevedibile malleabilità stilistica, qui lascia il posto a una durezza espressiva impenetrabile, a un silenzio e a un’immobilità che è altro dalla posizione statica degli idropici e delle catene applicate ai giganti. Qui tutto è silenzio, e lucore stregato di inoltrato crepuscolo. Anche se ci sono – in questa occasione del passaggio dei pellegrini – alcuni dolorosi racconti, e quindi il suono di voci che risentono del freddo degli spazi siderali, la regola è un muto e pallido scena- rio di cupa tristezza, in cui neppure il dolore ha voce, laddove i dannati sono coperti dal ghiaccio, come in bare trasparenti, fermi per l’eternità, glaciali come fu algido il loro agire guidato da una ragione disumana e da un animo senza alcun sentimento umano.
Una voce anonima avverte il Pellegrino di badare a non mettere i piedi sulle teste dei «fratei miseri lassi» (v. 21). Vocabolo strano, qui, “fratelli”. Riferito a chi? I commentatori hanno formulato spiegazioni che potrebbero ridursi a due possibili: la parola indica i peccatori in quanto uniti da una stessa miserabile sorte, oppure l’umano stato che comprende pure Dante (e noi lettori). Le ombre battono i denti dal freddo
eccessivo (come, nel terzo canto, “dibattero i denti” i nuovi arrivati in attesa della barca di Caronte). Il Poeta si guarda intorno, in basso, e nota due dannati strettissi- mi fra loro «che ‘l pel del capo avieno insieme misto» (v. 42). Essi alzano il volto e le lacrime gelano sugli occhi. A guisa di due montoni cozzarono l’un con l’altro, tanto si odiavano. Ed ecco un altro, privato delle orecchie dal gelo, parlare rispondendo alla domanda del Pellegrino. «D’un corpo usciro; e tutta la Caina/ potrai cercare, e non troverai ombra/ degna più d’esser fitta in gelatina» (vv. 58-60). Poi, “si presenta” da solo: «Sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi», il quale uccise un suo prossimano a tradimento, per motivi di possedimenti (fortezze, secondo l’Anonimo). Ma egli attende la venuta di Carlino de’ Pazzi, traditore della patria, e quindi ancor più colpevole in tale gerarchia dei peccati: ne prende quasi conforto, essendo quello peggior di lui.
Internandosi verso il centro del lago ghiacciato, Dante percosse col piede il viso a uno («se voler fu o destino o fortuna,/ non so...», vv. 76-77). Il passo riecheggia il lamento di Pier delle Vigne al cui albero Dante schiantò un ramoscello: «Piangendo mi sgridò: Perché mi peste?/ se tu non vieni a crescer la vendetta/ di Montaperti, perché mi moleste?»; e mentre quello bestemmiava ancora, il Poeta gli chiede: «Qual se’ tu che così rampogni altrui?». Ma l’altro risponde con una domanda ancora: Chi sei tu, piuttosto, che vai per l’Antenora percuotendo le gote della gente, sì che se fossimo nel mondo, sarebbero guai per te? Dante risponde di essere vivo, infatti, e di poter riportare in Terra la memoria di lui, a patto che gli dica il nome. Ma il dannato afferma di desiderare il contrario, e lo scaccia. Il Pellegrino allora lo afferra per la “cuticagna”, intimandogli di rivelarsi, altrimenti non gli resterebbe capello in testa. Dante ha buon vantaggio sul misero imprigionato dal ghiaccio e impotente nel difendersi. Ma il traditore non cede, e sfida il crudele “dischiomatore”, il quale «avea già i capelli in mano avvolti,/ e tratti glien’avea più d’una ciocca,/ latrando lui con gli occhi giù raccolti,/ quando un altro gridò: Che hai tu, Bocca?/ non ti basta sonar con le mascelle,/ se tu non latri? qual diavol ti tocca?» La scena sarebbe comica quasi quanto il battibecco di Senone con maestro Adamo, se non fosse tragica, perché Dante, avendo scoperto la sua identità, minaccia che gli farà un bel servizio tornando al mondo, ma Bocca risponde sprezzante, mandandolo via e dicendo racconta ciò che vuoi, ma sappi che questa linguaccia pronta a svelare il mio nome è Buoso da Duera, traditore della sua parte perché accettò danaro dai nemici e agì come se non avesse preso i soldi da Manfredi per andare contro Carlo D’Angiò. Chi è, comunque, Bocca degli Abati? Fiorentino, nobile, guelfo, che a Montaperti tradì il suo partito.
Altre belle lane vengono nominate, ma Dante e Virgilio si erano già staccati da essi, quando uno spettacolo orrendo si para davanti al Pellegrino: «Io vidi due ghiacciati in una buca,/ sì che l’un capo all’altro era cappello;/ e come il pan per fame si manduca,/ così ‘l sovran li denti all’altro pose/ là ‘ve ‘l cervel s’aggiunge con la nuca» (vv. 125-129). A Dante sfugge improvvisa la domanda: O tu che mostri con tale atto bestiale odio contro quello che stai mordendo, dimmene il motivo, e, se hai ragione tu, conoscendo i vostri nomi e la colpa di lui, io nel mondo parlerò con giustizia: possa altrimenti seccarsi la mia lingua.