Inferno - Canto XXXIV

Inferno - Canto XXXIV

In questo ultimo canto (XXXIV: le altre due cantiche sono formate da 33 canti ciascuna, ma il I dell’Inferno è considerato introduttivo dell’intera Commedia) si passa dall’emisfero boreale a quello australe, per cui ora sono le sette di sera, mentre appena i due pellegrini rivedranno le stelle (superata la “natural burella”) saranno le sette del mattino. In realtà essi visitano l’Inferno in 24 ore.
Il passo si apre con un verso in latino («Vexilla regis prodeunt inferni», ma l’ultima parola è coniata da Dante, in quanto l’inno di Venanzio Fortunato, vescovo di Poitiers, scritto nel VI secolo, inizia alla stessa maniera, ma solo con i primi tre termini uguali). Lucifero appare man mano a guisa di un mulino a vento (e, di fatti, l’alito gelido che Dante avverte in Cocito proviene dalle ali del Re dell’Inferno).
È gigantesco, ricoperto di lunghi peli ai quali si aggrapperà fra poco Virgilio sostenendo l’allievo per discendere al centro esatto della Terra e quindi risalire, superato il punto massimo di gravitazione. Ha tre facce, unite al vertice della nuca, di tre colori (rosso, nero e di una tinta fra il bianco e il giallo), orribile al vedersi per la bruttezza (lui che era stato il più bello degli angeli!). Dante si rivolge al lettore dicendo che a quella visione: «Io non mori’ e non rimasi vivo» (v. 25), provando e descrivendo una condizione assurda, peggiore di tutte le altre seguite a precedenti spaventi o commozioni interiori. Sotto ciascuna faccia uscivano due immense ali, da pipistrello, sicché i tre “venti” gelavano Cocito. Lucifero piangeva con sei occhi «e per tre menti/ gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava» (vv. 53-54).
La pena maggiore è quella di Giuda Iscariota «che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena» (v. 63). Bruto pende con la testa e il busto dal “ceffo nero” («vedi come si torce e non fa motto», v. 66); l’altro è Cassio, che Dante descrive “membruto”, mentre sappiamo da Plutarco che era esile e pallido.
Ed ecco la conclusione del Maestro: «Ma la notte risurge, e oramai/ è da partir, ché tutto avem veduto» (vv. 68-69). Il seguito del canto è una minuziosa descrizione di come, attraverso il vello del corpo di Lucifero, i due si calano fino a capovolgersi, perché oltrepassano il “punto zero”. Ed allora Dante, che poco prima aveva guardato il colossale petto del diavolo dal basso in su, ora vede le gambe di lui salire verso l’alto, poiché tutte le dimensioni sono capovolte. Inizia anche per i due la salita.
Ma Dante brama di sapere, in quanto non si rende conto d’un fenomeno così strano. Virgilio risponde: «Quand’io mi volsi, tu passasti ‘l punto/ al qual si traggon d’ogne parte i pesi» (il centro della terra, vv. 110-111). Adesso tu sei arrivato sotto l’emisfero agli antipodi di quello delle terre emerse, al cui punto più alto (Gerusalemme) si consumò il sacrificio di Cristo. Il tempo è diverso: qui è mattina se là è sera. Per timore di Lucifero le terre si raggrupparono nell’emisfero dei viventi, lasciando all’altro, in cui abbiamo appena messo i piedi, il grande mare.
La salita è iniziata, noncuranti dell’estrema stanchezza: Virgilio avanti e l’allievo subito dopo. Ed ecco apparire in alto un “pertugio tondo”; da quell’apertura uscirono a riveder le stelle. Questo termine, che racchiude molti significati, conclude non solo la prima, bensì la seconda e la terza cantica. Le stelle sono il punto sovrano di questo itinerarium mentis in Deum.