Inferno - Canto X
È sabato 9 aprile; le quattro circa del mattino.
Siamo nel VI cerchio, fra gli eresiarchi, immersi nel fuoco delle tombe incandescenti. I grandi comprensori dei peccati, di cui abbiamo esaminato via via l’“incontinenza” con le sue gradazioni (dai lussuriosi agli iracondi), per arrivare alla “violenza” e alla “frode”, presentano un caso a sé: quello degli eretici. Infatti il peccato contro la Fede non risiede nella pulsione della volontà o nella brama, nelle inclinazioni naturali, bensì nell’intelletto speculativo; per tale ragione Dante lo pone a sé stante. Com’è facile intuire, i dannati respinsero, in vita, l’idea dell’immortalità dell’anima, convinti che tutto terminasse nella tomba.
Per questo, nella logica del contrappasso, essi scontano in un sepolcro arroventato dal fuoco la loro eresia. Vi troviamo Farinata degli Uberti, Cavalcante de’ Cavalcanti padre del poeta Guido, e altri soltanto indicati a nome: Federigo II di Svevia, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini etc., in un unico avello. In questo canto, che si divide in due, si ha nella seconda “sezione” la spiegazione della prescienza dei dannati (ecco perché Ciacco previde per Dante l’esilio e per Firenze le continue lotte civili). Dal verso 1 al 93, la narrazione si snoda invece su un piano di tensione emotiva e di ammirazione spirituale da parte del Pellegrino verso il capo della fazione avversa Farinata.
È da specificare quanto segue: l’Alighieri – e ciò accade per quasi tutti i personaggi incontrati – dapprincipio ha una sua identità che lo distingue in toto dal protagonista col quale inizia il dialogo, ma via via che il peccatore (o il purgante, quando saremo nel monte dell’espiazione) si addentra nella sua storia, il Poeta viene attratto quasi da una forza centripeta che lo assimila – quando più quando meno – all’interlocutore. Nel caso dell’inflessibile ghibellino (degli Uberti), la cosa è lampante: due nemici si fronteggiano con sincerità, al modo dei cavalieri antichi. E Dante – come vedremo man mano – troverà un punto di incontro con Farinata nell’amor di patria (Firenze, città-stato) superiore alle logiche meschine delle par- ti: come Farinata si oppose alla volontà di vendetta dei suoi di radere al suolo Fiorenza, così Dante operò affinché il tentativo della Lastra fosse rimandato di alcuni
mesi e, nel 1304, esso fallì: entrambi sono identici nell’aver anteposto la “Patria” agli interessi personali e alla vendetta.
Ma vediamo questo intreccio di personalità antitetiche, di propositi, di espedienti narrativi, in cui Dante immette la suspense nel tessuto poetico, che, scaturito da un’occasione politica, assurge a esempio etico, in una forza di rappresentazione che ha del prodigioso e dove l’aspetto esteriore di ogni personaggio imprime al carattere intimo un suggello poderoso, in una lingua in cui ogni sillaba è necessaria.
Le tombe hanno i coperchi alzati. Virgilio spiega che dopo il Giudizio Universale tutti verranno richiusi, per sempre. E, mentre i due discorrono fra loro, erompe la voce di uno che ha riconosciuto l’inflessione toscana della parlata di Dante.
È dal fuoco, dall’Inferno, dall’anonimato delle tombe che nasce la voglia, meglio: la necessità di un dialogo. È troppo serrata e avvincente la tentazione di sa- pere qualcosa sul mondo dei vivi, in un’occasione unica, che l’impulso non nasce dall’Alighieri né da Virgilio, ma dal dolore stesso delle ombre. Noteremo subito che Farinata ha in dispregio la pena, e guarda più alla sua discendenza che al tormento di cui sembra farsi beffa. Dante deve descrivere un eroe, un uomo inflessibile, un magnanimo, e, nell’identificarsi con lui per quanto sopra spiegato, fa il suo stesso ritratto (tetragono ai colpi di sventura). Gli uomini, se onesti, sono al di sopra del loro destino di avversari!
Lo stile è di tipo tragico, cioè alto, come la circostanza impone. Dopo l’apostrofe di Farinata, lo smarrimento che una voce uscita, con ferma richiesta, da un’arca qualunque, genera in Dante, pone già lo svolgimento successivo del canto su un piano di disparità fra i due (e già la posizione fisica dell’Alighieri, ai piedi della tomba, di fronte allo statuario Farinata eretto nel buio dalla cintola in su, determina una sorta di gerarchia – che appartiene alla sottile, grande psicologicamente, opera parallela, in un piano di lettura separato – che è l’Amoroso galateo dantesco). La richiesta è esplicita e di prammatica a quei tempi: «Chi fuor li maggior tui?» (v. 42). Dante risponde con prontezza, e l’altro dichiara l’inimicizia antica che li separa, vantandosi di averli dispersi ben due volte (nel 1248 e nel 1260). E Dante ribatte, con altrettanta fierezza: «“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”,/ rispuos’io lui, “l’una e l’altra fiata;/ ma i vostri non appreser ben quell’arte”» (vv. 49-51). Ed ecco un’interruzione narrativamente straordinaria, un espediente letterario per alzare la tensione emotiva dello scontro verbale fra i due avversari: si intromette – ma con ben altro interesse – un’ombra che emerge solo con la testa («credo che s’era in ginocchie levata» v. 54). È Cavalcante de’ Cavalcanti, afflitto e debole, il quale ha la sola preoccupazione – essendosi ormai riconosciuti tutti fra loro – di vedere se il figlio Guido è accanto a Dante. Infatti, se – come intuisce il vecchio reclino sulla sua stessa disperata tristezza – l’Alighieri fa questo viaggio per altezza d’ingegno, Guido, il quale non è da meno, perché non è presente?
Dante risponde al passato remoto: “egli ebbe a disdegno la teologia”. Alla supplica del padre, se il figlio sia vivo o no, il Pellegrino tace, preso da un dubbio: se i dannati hanno il dono della prescienza, perché Cavalcante ignora la condizione del suo “nato”? Così, quel silenzio fu interpretato nel peggiore dei modi, e l’ani- ma fragile, piagnucolosa, all’opposto della fierezza sdegnosa di Farinata, «supin ricadde e più non parve fora» (v. 72). Nel frattempo, l’Uberti era rimasto impassibile, marmoreo, inattaccabile dal tormento dell’Inferno. Gli interessava di più lo svolgimento della politica fiorentina e la fine dei suoi. Ma si vendica, predicendo a Dante, in modo oscuro, l’esilio. Poi, il momento supremo che unisce idealmente i due nell’amor di patria divincolato da settarismi e lotte fratricide. Con un’espressione ottativa e augurale («E se tu mai nel dolce mondo regge», v. 82), Farinata chiede all’avversario il motivo di tanta crudeltà dei fiorentini verso i suoi discendenti. E Dante, lapidario: La strage che colorò di rosso sangue l’Arbia, ci porta a queste decisioni. Finalmente Farinata sospira e, movendo il capo, sentenzia: A quel massacro non partecipai da solo né senza un giusto motivo. Ma fui io solo a difendere a viso aperto Firenze quando tutti gli altri avevano deciso di distruggerla.
Dal verso 94 alla fine, il canto si dipana nel didascalico; la tensione emotiva si spegne. Farinata scioglie a Dante il dubbio sulla prescienza dei morti: essi guardano il futuro come i presbiti, ma via via che esso si avvicina al presente, si appanna e nulla rimane dentro la memoria, nulla si sa dell’oggi se altri non recano notizie.
Quando Virgilio e il poeta fiorentino si riuniscono, dopo questa drammatica e leale discussione, Dante narra dell’oscura profezia fattagli da Farinata, e il Maestro gli ingiunge di tenerla a mente perché nel Regno Santo gli sarà svelato per intero l’arcano significato di essa..